La Fenice è ispirata alla figura di Suor Juana Inés del Cruz (1648 ca. - 1693) poetessa, drammaturga, scienziata e poligrafa messicana di umili origini, forzatamente monacatasi, dopo una giovanile esperienza di corte, per poter coltivare i suoi interessi speculativi, che fra i dotti contemporanei le procurarono vasta fama e gli appellativi di "Fenice" e di "Decima Musa". Fu ammirata e protetta dal Viceré del Nuovo Messico, Conte de Paredes, e da sua moglie, Doña Maria Luisa Gonzaga Manrique de Lara, da lei liricamente celebrata col nome-señhal di Lisi. L'eclisse del favore viceregale dopo il rientro in Spagna dei Paredes, unito alla crescente censura ecclesiastica nei suoi confronti, sfociarono in una grave crisi e in clamoroso autodafé (qui interpretato in chiave sacrificale e simbolica) che ne concluse tragicamente la parabola di monstrum del suo tempo.
A questa straordinaria figura di donna, assetata di autorealizzazione conoscitiva con una tormentosa intensità tutta barocca e insieme modernamente "faustiana" nelle sue esplosive contraddizioni - fra mente e cuore, spirito e sensi, rigidità del ruolo sociale-sessuale ed intima spregiudicatezza, fissità della cultura coloniale egemone e fermenti vitalistici di quella popolare - Maura Del Serra ha dedicato un'attenzione già concretatasi nella traduzione di parti dell'originale poemetto filosofico El Sueño, e che trova ora il frutto creativo più compiuto in questo dramma che è prima di tutto, per forma e per sostanza, opera meditata e appassionata di poesia.
Dalla quarta di copertina
"La Fenice" di Maura Del Serra
Il teatro di Maura Del Serra - dopo alcune convincenti prove si può usare senza sospetto di enfasi questa locuzione - procede parallelamente alla sua lirica ma proviene dalla stessa radice e si nutre dello stesso difficile e infuocato paragone di conoscenza inseguita e di rivelazione avuta e sempre nuovamente attesa nel desiderio di una sospirata unità [...]
Quel paragone (quel rovello) là nelle liriche è interno all'ideazione e al linguaggio; qui nel dramma è oggettivo anzi incarnato e proiettato contro il mondo esterno e le sue istituzioni. Ma rimane lo stesso il nucleo generativo dell'esperienza intellettiva e spirituale; e rimane la stessa, nell'evidenza scenica, la piena interiorità dell'evento. Infatti solo in quella esperienza e in modi a lei convenienti si impianta e si sviluppa il dramma di Maura Del Serra: una fase più critica delle altre accende e fa rilucere tutto il percorso interiore, ne rivela e allo stesso tempo ne occulta il senso della mente inquieta e protesa dell'agonista. Proprio l'ardore di quel frangente accelera la maturazione e il compimento: quando questo è perfetto, il dramma è finito.
La drammaturgia di Maura Del Serra è lineare come una dimostrazione: è affidata al processo di autocoscienza e alla progressiva lucidità dei suoi conflitti. Il dialogo le è sufficiente, i personaggi non sono mai più di due sulla scena, e "l'altro" è sempre solo la spalla o la sponda dell'unico vero attore, in questo caso Suor Juana: tutto è in lei e da lei.
Il testo è di una limpidezza ammirevole e anche di una sobria e sapiente sicurezza. Maura Del Serra ha una virtù speciale nell'attingere all'energia operativa della lingua senza adulterarne quella meditativa. L'azione e il pensiero stanno nello stesso vocabolario.
Neppure ha bisogno di fare troppe concessioni al barocco che è il fondo culturale e mentale della vicenda: ne fa tralucere le esuberanze da qualche cerimonialità di linguaggio cortigiano e dall'atteggiarsi delle parole di ossequio, ma non si perde a cercare colori di epoca.
Le intime torture di Juana Inés de la Cruz sono troppo presenti per una messa a dimora tra i torciglioni barocchi. La rivendicata dignità della donna, il razzismo, i disastri del colonialismo e soprattutto la tormentosa dialettica di scienza e fede, di sapere e di obbedienza, di infinito e di limite non possono stare tra parentesi o tra virgolette. Con molta chiarezza, lealmente, e vorrei aggiungere, con molta classe Maura Del Serra lascia trasparire le ragioni della sua immedesimazione poetica con la persona di Inés: segue della sua creatura il dibattimento morale e non è meno aderente all'ascesi finale, all'estasi del no saber.
MARIO LUZI
Introduzione a La Fenice
Siracusa, Edizioni dell'Ariete, 1990
Maura Del Serra, oltre a moltissimi saggi di critica letteraria e alla densa attività di traduttrice da molte lingue, scrive in versi e per il teatro. Il suo ultimo lavoro teatrale si intitola La fenice (Edizioni dell'Ariete, Siracusa, pp. 92, L. 12.000) ed è ispirato alla secentesca figura di suor Juana Inés de la Cruz. È un teatro di poesia, e anzi, come scrive Mario Luzi nella sua nota introduttiva, "procede parallelamente alla sua lirica... La drammaturgia di Maura Del Serra è lineare come una dimostrazione: è affidata al processo di autocoscienza e alla progressiva lucidità dei suoi conflitti... Il testo è di una limpidezza ammirevole e anche di una sobria e sapiente sicurezza. Maura Del Serra ha una virtù speciale nell'attingere all'energia operativa della lingua senza adulterare quella meditativa. L'azione ed il pensiero stanno nello stesso vocabolario".
"Poesia", anno IV, n° 41 (giugno 1991), p. 33
MAURA DEL SERRA, La Fenice, Siracusa, Edizioni dell'Ariete, 1990
La Fenice fin dal titolo sottolinea la dolorosa ed esaltante diversità di Suor Juana. La poetessa messicana viene rappresentata negli ultimi anni di vita, nel contesto dei grandi rivolgimenti sociali che percorrono la colonia. Personaggi reali e immaginari si intrecciano nel dramma, ma sempre con profonda aderenza alla sostanza della vicenda di Suor Juana. Subito emerge la contraddizione tra la vocazione allo studio della protagonista e il richiamo all'osservanza puntuale dei riti religiosi. Al fondo di questo contrasto, alimentato da un richiamo alle parole di San Paolo sulle donne, sta il problema del dubbio. L'autorità proclama ed esige certezze, mentre Suor Juana insegue l'interrogativo fecondo che nasce dalle letture. [...]
Rielaborando liberamente i dati vitali e intrecciandoli con una lettura creativa dei testi di Suor Juana, Maura Del Serra ci ha offerto un'opera singolare, al di fuori di ogni schema. Possiamo leggerla, al tempo stesso, nella sua autonomia di opera letteraria e come chiave per introdurci nel mondo mirabile della suora messicana. [...] Un lavoro che non concede nulla agli effetti facili e compie la scelta coraggiosa di un linguaggio "alto".
ANTONIO MELIS
"Il Manifesto", 7 luglio 1991
MAURA DEL SERRA, La Fenice, Siracusa, Edizioni dell'Ariete, 1990
Maura Del Serra, che è anche studiosa e insegnante di Letteratura italiana all'Università di Firenze, dopo aver ben tradotto alcuni brani del poemetto di Sor Juana, Il Sogno, ha anche lei riversato in un'opera teatrale in due atti la storia della monaca poetessa [...].
Il libretto di Maura Del Serra reca in apertura una nota introduttiva di Mario Luzi, il quale fa due osservazioni giustissime: che "il testo è di una limpidezza ammirevole e anche di una sobria e sapiente sicurezza", e, secondo, che l'autrice non si è persa "a cercare colori di epoca". Le due osservazioni sono tanto più esatte in quanto i due atti della Del Serra - così fitti di richiami a brani, interi endecasillabi, espressioni concise o diluite della poetessa evocata, estremo esempio di sostanzioso e concettoso barocco - sono tutti in versi. [...] La Del Serra ha posto accanto a Suor Juana un'amica e confidente, ma non ha inventato molto altro, sottoponendo a poche e legittime forzature e a poche e legittime semplificazioni la vicenda della monaca. E lo ha fatto partendo dall'anno 1690, data delle graduali ma severe restrizioni a cui Suor Juana fu sottoposta: basta con l'esercizio della letteratura profana e, subito dopo, basta con tutto, anche con l'esempio contagioso della sua intelligenza.
Come Ottavio Paz ha sempre sostenuto, Suor Juana si lasciò morire di peste con le sue consorelle quando alle repressioni inquisitoriali si aggiunse la crisi della colonia spagnola del Messico: per la penuria di alimenti (imboscati da speculatori), per le ribellioni degli Indios, e per la morte del Viceré, ammiratore e protettore di Juana. I personaggi, compreso il prete confessore, sono quelli che la storia ci ha inviato: cosicché la Del Serra ha eseguito in versi e in teatro una interpretazione di Sor Juana assai netta, chiara ed essenziale.
DARIO PUCCINI
"Il Messaggero", 2 ottobre 1991
MAURA DEL SERRA, La Fenice, Siracusa, Edizioni dell'Ariete, 1990
[...] L'opera ispirata alla figura della scrittrice messicana Suor Juana Inés de la Cruz (1649 ca. - 1695) [...] si caratterizza per un forte lirismo, fatto di improvvise accensioni in cui, tuttavia, non mancano allusioni al mondo contemporaneo nel quale sempre meno spazio viene concesso a categorie ribaltanti e liberatorie, come il sogno (va qui ricordato che la Del Serra ha anche tradotto parti dell'originale poemetto El Sueño della Juana), la faustiana immaginazione, gli audaci scatti visionari: in tempi che, per dirla con le stesse parole di Don Segundo, rovescio di Juana, "sono sempre meno propizi / alle avventure del dissenso, ai voli / controvento, alle sfide solitarie " (p. 23).
Nel complesso la pièce vuole sottolineare appunto tra le altre cose l'inevitabile conflitto che esiste(va) tra ragion di stato e tensione/aspirazione verso l'ignoto, verso l'inconoscibile. La poesia resta una delle chiavi più alte e drammatiche per schiuderne la porta. Da qui il forte sentimento pasoliniano: si veda, a tale proposito almeno questa bellissima scheggia: "[...] Madre / Juana adesso è come indifesa crisalide / che è uscita dal lucido artificio / del bozzolo filato dalla sua mente, nuda / sulle sue ali bagnate e malferme, / in preda al vento sopra un ramo ignoto" (p. 86), nonché la fascinosa atmosfera notturna che non pochi di questi versi sanno suscitare. Letteralmente commovente, in tal senso, la "preghiera" finale - quasi un inno di novalisiana memoria - di Juana (pp. 88-90), di struggente intensità.
LUIGI FONTANELLA
"America Oggi" Magazine, 26 gennaio 1992
Nella Nota introduttiva al dramma La Fenice di Maura del Serra M. Luzi dichiara una sola la radice del teatro e della lirica di questa autrice: il raffronto di due forze interiori e antagoniste, ansia di conoscere e fede religiosa in divenire. Non a caso lo stesso conflitto muove la protagonista di La Fenice, suor Juana Inés de la Cruz, nella realtà storica poetessa, drammaturga, alchimista nel Messico secentesco, dominato dai Viceré e dall'Inquisizione: soprattutto dall'ignoranza delle masse.
I due atti di La Fenice, soprannome di suor Juana, corrispondono ai momenti della preparazione e della catastrofe di un'alta tragedia che distrugge la nobile protagonista, travolta nel gorgo di inquieta intelligenza e di coscienza di misteriosi doveri, e fatta simbolo di altri conflitti di ogni tempo e di diversa specie, ad esempio quello fra individualismo e società.
Nel dramma dell'anima di Juana intervengono tre personaggi: il direttore spirituale, raffinato strumento dell'organizzazione ecclesiastica, il Viceré, impegnato nelle lotte politiche, ma legato alla monaca dalle ricerche alchemiche, che trasformano lo spirito alienandolo dal mondo. Per lei trascura gl'impegni politici che lo pongono contro un popolo giovane, destinato a "ferire gli altri ed a ferirsi, cercando la distruzioneÈ. Il dialogo di Juana e del Viceré vale appunto a prefigurare l'auto da fé della monaca, simbolo esistenziale della distruzione imminente su chi vive per la conoscenza, stretto il cuore fra Scilla e Cariddi, libertà e disciplina. Il Viceré affronta la morte tentando di placare gli insorti, illuminarne lo spirito: anticipa il diverso sacrificio di Juana.
Il terzo personaggio è l'Arcivescovo, che in politica prosegue in certo modo l'opera del Viceré avversato, interpretando delle masse il desiderio inconscio di ordine e sicurezza. Rappresenta il potere ecclesiastico molto dall'alto; e dopo la morte del Viceré asservisce, mortificandoli, i cortigiani adulatori: "Non volgete in idillio / ciò che è stato tragedia. La storia fa giustizia / ma la giustizia ha una veste di pianto, / e i piatti d'oro della sua bilancia / sono colmi di sangue illustre e oscuro, / il sangue indistinguibile di vincitori e vinti".
Poi affronta con durezza suor Juana, credendola priva di umiltà, assetata di autonomia intellettuale; ma con stupore deve constatare che la monaca ammette la propria insufficienza e gli errori, nel mentre che difende la ricerca della verità, prescritta nel Vangelo di Giovanni: "il vero, quando è conosciuto, / libera; e non bisogna aver paura / di andare troppo oltre, perché il vero / è al di là". Non è fiducia nel dubbio sistematico: il nostro tempo (non solo il Seicento) "è un tempo troppo incredulo per adorare, e troppo / appassionato per fare del dubbio / l'unico dogma". E nel Nuovo Mondo è tempo di "speranze indociliÈ.
Vi è nel personaggio di Juana un complesso di umanitarismo, femminismo, sincretismo culturale e religioso.
Ma alla fine suor Juana, orgogliosa filosofa, è vinta dalla constatazione che, cercando il vero, non ha "saputo amare alcuno", o meglio ha amato "dell'amore che non osa / dire il suo nome".
Non sono state le parole dell'Arcivescovo a convertirla: l'abiura era già scritta.
La tragedia si chiude nell'espiazione e, quasi sacra rappresentazione, reca un'epigrafe che sospende ogni giudizio in ultimo raffinato ossimoro ("nel nome silenzioso della lode".)
Il discorso sulle strutture, e le citazioni fatte, comprovano la penetrazione dell'autrice in un complesso tema storicamente concretato, e assunto a simbolo di universale ricerca di un senso nella vita. Il racconto essenziale è ben caratterizzato nei personaggi, vettori di forze ideali.
Il linguaggio vigoroso corrisponde a lucidità di personale travaglio che in forme simboliche è trasferito nella mistica monaca secentesca.
CESARE FEDERICO GOFFIS
"Esperienze letterarie", XVII, 2, 1992
MAURA DEL SERRA, La Fenice, Siracusa, Edizioni dell'Ariete, 1990
Forse questa restituzione de La Fenice di Maura Del Serra in forma di lettura [...] riesce - non meno di quanto farebbe una rappresentazione vera e propria - a rendere giustizia ai meriti ed alle caratteristiche certamente non usuali di questo denso e rigoroso lavoro drammatico. Perché la forma - più essenziale e penetrante - della lettura porta come connaturalezza a concentrarsi sui valori anche preziosi, e sempre profondi, di un testo che è, davvero, teatro di parola al cento per cento, nella sua forma più pura e - diremmo - assoluta, privo di ogni interesse e indulgenza verso qualsiasi possibile risvolto spettacolare.
Tutto risiede nella scrittura: nel pregio, appunto e nella intensa densità del linguaggio drammaturgico della Del Serra. Quasi subito si disperde l'impressione, sgradevole, di una letterarietà eccessiva ed il dialogo in versi a cui dà vita l'autrice, il suo linguaggio raffinato ed elaboratissimo, sostenuto in ogni momento da un'alta tensione poetica ed intellettuale, sanno diventare evocatori di emozioni, specchio di violenti e drammatici contrasti, eco vibrante di tormenti e di accensioni ideali tanto forti da reggere bene anche sulla scena: come elemento, e tema, di un discorso teatrale di ragguardevole nerbo, e rilievo. La scrittura si fa, insomma, molto rapidamente teatro autentico: e rimane sorretta poi, anche dal lirismo e dal pathos poetico che costituiscono, della Del Serra, l'affascinante e riconoscibile sigla di autrice. [...]
FRANCESCO TEI
Presentazione de La Fenice, Teatro della Compagnia
7 marzo 1993 (inedito)
Il "dove" e il "quando" spesso diminuiscono nella poesia la perfezione formale, la compiutezza delle emozioni, il rigore della parola. Le coordinate temporali e spaziali scardinano l'assetto poetico e lo mortificano riconducendolo ad una fissità stereotipa, reale, troppo quotidiana, troppo poco suggestiva. Ma lo scarto, nella poesia autentica e silenziosa, è segnato dall'assolutezza, dall'irrepetibilità dei valori semantici e delle sensazioni, dal rispetto per la parola. Ed è proprio il rispetto la prima sensazione che colpisce il lettore de La Fenice di Maura Del Serra.
Gli elementi narrativi e storici per la costruzione di un personaggio c'erano tutti: l'eroina Suor Juana Inés de la Cruz, il Messico colonizzato e tiranneggiato dalla corona di Spagna, la sensibilità umana (e, in questo caso, femminile) in lotta contro il potere politico ed ecclesiastico, la Controriforma, l'Inquisizione, il rogo.
Maura Del Serra non ha sublimato il barocco in poesia sentimentale e accattivante, ma ha denudato, ha spogliato una vicenda privata e un'epoca intera dai paludamenti eccessivi e ridondanti della retorica storica (l'anedottica) ed ha tratteggiato una vicenda di parole scabre, essenziali ma limpide e precise, acuminate come lame. La vicenda ha preso forma, si è "compiuta", in una tragedia, in un dramma che coinvolge l'anima e i sensi di Juana Ines de la Cruz: monaca e poetessa, la protagonista vive in convento, in un luogo nello stesso tempo protetto e insidioso, dove la sua vocazione poetica all'esercizio del dubbio contrasta inevitabilmente con la doverosa osservanza dei riti, ossessivamente reiterati, della religiosità.
La chiesa esprime e richiede certezze, fede, Suor Juana dentro di sé declina incertezza e interrogativi. Troppo dotta e troppo assetata di sapere per un'epoca incupita dalle ceneri sparse dall'Inquisizione, Suor Juana, nonostante gli altolocati protettori e mecenati (il conte de Paredes, viceré del Nuovo Messico), non riesce a sfuggire alla rete della censura ecclesiastica e, dopo una crisi mistica, mette fine al suo privato con un tragico ed eclatante autodafé.
Maura Del Serra ha riportato in verticale la vicenda: l'epoca (il quando) e il luogo (il dove) sono costituiti dalle stesse parole; non c'è caratterizzazione, né colori d'annata, solo azioni pure che progrediscono per lemmi nella direzione della coscienza di ogni personaggio che ruota intorno all'unica protagonista morale.
CLAUDIA CAPPELLINI
"Il Tirreno" / Cultura e spettacoli, 6 aprile 1993
MAURA DEL SERRA, La Fenice, Siracusa, Edizioni dell'Ariete, 1990
Ne La Fenice di Maura Del Serra si agitano passioni insieme primordiali e coltissime, "naturali" e indotte, individuali e sociali. Un testo drammaturgico e poetico di insolita trasparenza permette allo spettatore di gettare uno sguardo acuminato su conflitti dell'anima che sono anche conflitti della civiltà, oggi come ieri, domani come oggi. Il luogo (il Messico durante la colonizzazione spagnola) e l'epoca (la seconda metà del Seicento) conferiscono alla vicenda un hic et nunc esotico e barocco particolarmente invitante, cui l'autrice si riferisce con raro pudore. Storia ma soprattutto metastoria. Contraddizioni che appartengono alle vicende della cultura e della Chiesa, ma prima ancora all'integrità primordiale dell'essere individuale, al suo diritto negato di esprimersi e di evolversi. A tale diritto, come sempre, si oppone il Potere. Nulla di più classico, così come classico, nell'eleganza verbale della versificazione, appare il testo di Maura Del Serra.
Ecco un dramma storico, quello di Suor Juana Inés de la Cruz, che non ha bisogno di esplodere perché appare già delineato nelle premesse. Monaca e poetessa, religiosa e musa della letteratura messicana, la protagonista vive in convento una contraddizione che aspetta solo di rivelarsi a se stessa. Subito lo spettatore sente Suor Juana minacciata dalla punizione della Controriforma e dell'Inquisizione, e aspetta che l'eroina se ne renda conto uscendo dalla sua generosa illusione. È allora che la parabola di lei (più vicina all'implosione che all'esplosione) si consuma in termini di radicale chiarificazione interiore, fino all'ascetismo, alla rinuncia totale e alla morte. Suor Juana, sconfitta dalla Chiesa, si rifugia in una disciplina che appare insieme autopunitiva e liberatoria. Ribelle, si flette nel sacrificio. Vinta, si confina nella rinunzia come sfida gettata in faccia ai nemici. Non sapremo mai quale dei due aspetti abbia prevalso in lei. Del resto essi non si escludono. L'autrice sembra accollarli entrambi all'amata eroina: l'umiltà e la ribellione, sacrificio come ritrovamento di Cristo ma anche come schiaffo in faccia ai persecutori. La parabola di Suor Juana resta, com'è giusto, misteriosa e ineffabile.
Le modalità drammaturgiche adottate dall'autrice sono quelle della tragedia, ma si tratta di una tragedia destinata a chiudersi rigorosamente su se stessa piuttosto che a dilatarsi. L'azione si sviluppa nella direzione della coscienza che scava entro se stessa, in Suor Juana come nel Viceré e in sua moglie, nella monaca amica della protagonista come nell'Arcivescovo. Figure scabre e insieme levigate, irte e immutabili, arrotano il taglio della consapevolezza fino a divenire supremamente aguzze. Nella luce finale che tutto avvolge, la tragedia si compie quando ciascuno si disvela radicalmente a se stesso, comprendendo e accettando fino alle estreme conseguenze di essere colui che già era.
Il piglio traslucido ed essenziale di Maura Del Serra, che per certi aspetti evoca la Sacra Rappresentazione e comunque si oppone al teatro di "esecuzione" in auge negli ultimi anni, postulando al contrario la preminenza del testo e il rigore della parola poetica, ha trovato una "lettura" che per certi aspetti è parsa disvelare la natura segreta de La Fenice e il suo far leva sul valore del "verbo". La messinscena di Valentino Signori ha concentrato l'attenzione sul respiro di parole che comunicano attraverso la catena dei versi, i quali a loro volta rinviano al nitore inesorabile dell'essere.
SERGIO FROSALI
Dal "programma di sala" de La Fenice,
presentata nella Sala Maggiore
del Palazzo Comunale di Pistoia il 6 aprile 1993
BARBARA FIORELLINO, "La Fenice" di Maura Del Serra, Roma 1998
Il maestoso volo della "Fenice"
Crediamo di non sbagliare, dicendo che la bella e austera Sala Maggiore del Palazzo Comunale, ha ospitato, sere fa, per la prima volta, almeno dal dopoguerra ad oggi, il teatro di prosa. In formato "lettura", d'accordo, ma sempre teatro di prosa è. Parliamo dell'opera La Fenice di Maura Del Serra, presentata dal Teatro della Compagnia di Firenze. Una Del Serra "fresca" di teatro, dove, appena affacciatasi, ha ricevuto allori (due premi nazionali vinti, uno dei quali, addirittura il "Flaiano" e due testi pubblicati dalla prestigiosa rivista di Teatro "Hystrio"). Ed eccoci alla serata de La Fenice, approdata in piazza del Duomo, grazie all'interessamento dell'Associazione Teatrale Pistoiese, del Comune e della Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia.
Che dire di questa meditata e appassionata opera che già non sia stato detto da importanti firme, a incominciare da quella di Mario Luzi, che della Del Serra è alto estimatore? [...] La Fenice è un testo che si affida, essenzialmente e con immediatezza, alla forza interiore dei suoi personaggi, creando, nel rapporto "tempo-azione", una intensa coerenza drammatica. E Valentino Signori che, con la collaborazione di Mario Nicosa, ha curato la "lettura", ne ha tenuto ben conto, dosandone il ritmo e conferendo lineare drammaticità ai molti personaggi di questa intensa e suggestiva "biografia" teatrale, non certo favorita, nella resa, dalla dissonante acustica della Sala. Una lettura "nuda", senza riferimenti scenici, tranne due riflettori a dar luce ad un ipotetico palcoscenico [...]. Lì, in quel "trecentesco" spazio, gli attori hanno dato vita, con bell'impegno, al dramma scenico di "Suor Juana Inés De La Cruz", a dar sensibile voce alla quale era Marcellina Ruocco. Ma tutti sono ben "entrati" nel non facile testo: Fernando Maraghini, Monica Menchi, Franco Di Francescantonio, Alessandra Bedino, Ferdinando Cajati, Fabio Baronti e Bruno Santini [...].
NILO NEGRI
"La Nazione", 8 aprile 1993
Premio Internazionale "Mario Luzi" per la poesia, il teatro, la saggistica. Premiazione al Teatro "Valle" di Roma
[...] Un "grande italiano", con un profondo "rispetto per la politica, le istituzioni e lo Stato" e che riuscì a portare la poesia a Palazzo Madama. Così il Presidente del Senato Franco Marini ha descritto Mario Luzi, che fu senatore a vita per pochi mesi tra il dicembre 2004 e l'inizio 2005. Marini ha ricordato il poeta toscano in occasione del "Premio Internazionale Mario Luzi" che si è tenuto al Tetro "Valle" di Roma [...]. "Il rispetto per la politica, per le istituzioni, per lo Stato mi sembrano, nel pensiero di Mario Luzi, del senatore Luzi, - ha sottolineato Marini - altrettanti capisaldi di una disponibilità all'impegno e alla responsabilità che anche un grande poeta sente di avere, senza licenze o evasioni dalla realtà umana concreta". [...] "Erigere su qualche piazza un monumento, sia pure aere perennius in senso stretto, non è il modo migliore per ricordare un poeta e tramandare la sua memoria. E non è certamente il modo che Mario Luzi si sarebbe augurato. Lui avrebbe voluto che i raggi dell'attenzione dei lettori futuri si concentrassero sul suo messaggio umano e spirituale (terrestre e celeste), e che la bellezza implicita nel messaggio scoprisse e facesse fiorire nei giovani le voci o la voce di una grande ancora possibile poesia dell'avvenire.Un Premio di poesia dedicato alla scoperta di queste voci è subito apparso, dopo la scomparsa del nostro amico-maestro, l'iniziativa ottimale che si prospettava ai suoi lettori, critici e seguaci a vario titolo. Ci siamo messi all'opera con lo slancio perdurante della nostra devozione, della nostra riconoscenza per i tesori di saggezza della sua eredità (Maria Luisa Spaziani).
Sez. "Poesia edita".
Primo classificato "ex aequo":
Claudio Damiani Attorno al fuoco, ed Avagliano
Cesare Viviani La forma della vita, ed. Einaudi
Sez. "Saggio sulla poesia luziana".
Prima classificata:
Sarah Bernasconi, Tra cielo e terra, ed. Franco Cesati
Sez. "Teatro in versi".Primo classificato:Derek Walcott, Odissea, ed. Crocetti
Segnalata Maura Del Serra, La Fenice, ed. dell'Ariete
[...]La cerimonia di premiazione della seconda edizione del Premio Internazionale "Mario Luzi" è fissata all'8 giugno 2007 a Roma , presso il Teatro Valle. Per sabato 9 giugno 2007 è in programma sulla RAI 1, nell'ambito della trasmissione "L'Appuntamento" condotta da Gigi Marzullo, lo speciale dedicato al Premio Internazionale "Mario Luzi". [...]
www.marioluzi.itgiugno 2007
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